Erano le ore 3:15, circa, della notte del 13 marzo 1964 quando, Catherine Susan Genovese, conosciuta più semplicemente con il nome di Kitty, di famiglia italoamericana, appartenente alla piccola borghesia, fu uccisa, accoltellata (con un coltello da caccia) da Winston Moseley, le cui indagini giudiziarie, in seguito, lo definirono come uno psicopatico e necrofilo ma capace di intendere e di volere.
Il tutto avvenne a Kew Gardens, un quartiere del Queens, uno dei cinque distretti di New York negli Stati Uniti d’America. Un quartiere che si poteva definire tranquillo.
Kitty, tornava dal suo lavoro (gestiva, infatti, il locale Ev’s 11th Hour Sports Bar sulla Jamaica Avenue, nel quartiere di Hollis, nel Queens) e una volta parcheggiata l’auto a circa 30metri dalla sua abitazione, in modo tale da non disturbare Mary Ann, la sua compagna, (altre fonti dicono, invece, che la ragazza non trovò un parcheggio di fronte al suo portone e per questo motivo andò a parcheggiare la sua macchina sul resto del suo palazzo ) uscì dalla vettura.
Quindi, fu prima avvicinata da Moseley e poi rincorsa (evidentemente la ragazza aveva capito il pericolo nel quale stava cadendo) e accoltellata alla schiena due volte.
La donna, di 29anni, ebbe il tempo e il modo, nonostante tutto, di gridare e di urlare all’intero quartiere il suo dolore e la necessità di essere aiutata. Allarmi e richieste di soccorso che giunsero a parecchi dei suoi vicini che, una volta destatisi dal sonno, non capirono l’effettiva richiesta di soccorso di Kitty. Tranne un uomo (si scoprì poi il suo nome: Robert Mozer ) che, una volta affacciatosi dalla sua finestra, intimò all’aggressore di lasciarla. Fu solo in quel momento che Moseley si allontanò dalla sua preda, mentre quest’ultima, sanguinante e ferita, lentamente e con fatica, cercava di raggiungere casa sua.
Nel frattempo, i vicini di casa della ragazza, pensarono che questa fosse ubriaca o molto stanca. Non ebbero cura di lei.
Pare che alcuni di questi vicini, seppur in modo confuso e non chiaro, chiamarono e allertarono la polizia, che proprio per via di questo loro racconto impreciso, non agì di conseguenza (in seguito a questo triste ed efferato caso di cronaca nera, fu istituito il noto numero unico d’emergenza americano 911, ndr) anche se questo dato è confutato da altre ricostruzioni dell’evento che affermano che nessuno, tranne Mozer ,si diede da fare per aiutare Kitty, senza chiamare, però, nemmeno lui la polizia.
Quando la ragazza, sola e lacerata dalle ferite, capì che non aveva più le forze necessarie per raggiungere casa sua, cercò un altro rifugio, presso l’androne di un palazzo, dove conosceva bene i suoi inquilini. Anche in quella occasione, la ragazza gridò aiuto, senza riceverlo.
Secondo la ricercatrice Catherine Pelonero, che studiò per ben sette anni questo caso, pubblicandone anche un libro a riguardo, Kitty chiese chiaramente aiuto ad uno dei suoi vicini che la stava guardando ma questi fece finta di non sentirla dicendo a un suo amico che non voleva essere coinvolto nei problemi altrui.
Ma, intanto, la furia omicida di Moseley non si era placata. Infatti, quest’ultimo, dopo essersi allontanato momentaneamente dal luogo dell’assalto per via dell’unico intervento in aiuto di Kelly, era ritornato sul posto dopo circa dieci minuti con la chiara intenzione di trovare la donna.
Cosa che, purtroppo, fece. E, una volta individuata, in quell’androne di quel palazzo, la stuprò e l’accoltellò altre 14 volte, mentre Kitty ancora urlava aiuto. Grida che non raggiunsero nessuno delle coscienze dei vicini, tranne una, quella di una signora che accorse quando purtroppo era ormai troppo tardi. Kitty infatti era già morente.
Ci vollero decenni per svelare questa verità più complicata e cioè che qualcuno scese dalle scale di quel palazzo dove c’erano i due nell’androne. Questa vicina, che effettivamente corse dal suo appartamento per salvare la signora Genovese, sapendo che era in pericolo ma, ignorando se il suo aggressore fosse ancora sulla scena, si chiamava Sophia Farrar.
La Farrar urlò a un vicino di chiamare la polizia e l’ambulanza mentre cullava il corpo della signora Genovese sussurrandole “L’aiuto sta arrivando”.
La vittima, seppure in condizioni estreme, era ancora viva quando la polizia arrivò poco prima delle ore 4. Ma Kitty morì all’arrivo al Queens General Hospital,
Il mostro Moseley, rubò alla donna, pure, circa 49 dollari. La durata complessiva dell’aggressione fu di almeno mezz’ora.
Winston Moseley, afroamericano, operatore di macchine da stampa, fu catturato più tardi in occasione di un altro crimine. Confessò non solo l’omicidio di Kitty Genovese, ma anche altri tre delitti a sfondo sessuale. Perizie psichiatriche successive supposero che Moseley fosse pure un necrofilo.
Moseley rilasciò una confessione in cui espose minuziosamente l’aggressione, descrivendo in modo dettagliato il suo attacco, senza lasciare alcun dubbio che egli fosse l’assassino.
Fu dichiarato colpevole di omicidio e condannato a morte.
La condanna a morte fu successivamente convertita in carcere a vita.
Intanto, con un articolo, a firma di Martin Gansberg, pubblicato sul New York Times il 27 marzo 1964 , si affermò che “ Per più di mezz’ora 38 cittadini rispettabili e rispettosi della legge, hanno assistito a un assassino che perseguitava e accoltellava una donna in tre diversi attacchi a Giardini di Kew”.
Questo pezzo ebbe valore nazionale quando fu ripetuto due settimane dopo nella rivista Life da Loudon Wainwright, che ha fatto riferimento a ” 38 testimonianze incuranti ” nella sua rubrica “La ragazza morente che nessuno ha aiutato”.
Ed è stato sancito pochi mesi dopo nel titolo di un libro, ” Trentotto testimonianze “, di AM Rosenthal .
All’epoca l’editore metropolitano di The Times, il signor Rosenthal è stato il giornalista più responsabile della presunta scoperta e della promozione della storia scioccante di come Winston Moseley abbia inseguito e ucciso spietatamente Catherine Genovese, conosciuta come Kitty, davanti a finestre piene di spettatori indifferenti.
Altre fonti citano lo stesso articolo dicendo che in quello scritto, pubblicato in prima pagina sul New York Times, che 37 vicini apatici avevano assistito all’omicidio senza chiamare la polizia, solo uno si è attivato chiamando soccorsi solo dopo che la ragazza era morta.
Il signor Rosenthal ha detto, in “Trentotto testimonianze”, che il numero dei testimoni era arrivato da Michael J. Murphy, il commissario di polizia, durante un pranzo all’Emil’s Restaurant and Bar su Park Row, vicino al municipio.
«’Fratello’, disse il commissario, ‘quella storia del Queens è da scrivere’.
Trentotto persone, ha detto il commissario, avevano assistito all’uccisione di una donna nella “storia del Queens” e nessuno di loro aveva chiamato la polizia per salvarle la vita.
“Trentotto?” Ho chiesto.
E lui ha detto: “Sì, 38 anni. Sono stato in questo settore per molto tempo, ma questo batte tutto”.
Provai allora la reazione più familiare dei giornalisti: lo shock indiretto. Questa è una sorta di pubblicazione professionale che è l’essenza del mestiere: la consapevolezza che ciò che stai vedendo o ascoltando farà sussultare un lettore.
Questo numero di testimoni è stato oggetto di molte critiche ed esami nel corso degli anni, anche da parte dello stesso giornale The Times.
Di certo, Joseph Fink, che lavorava nel condominio dall’altra parte della strada rispetto a dove viveva Genovese, vide il primo attacco, non facendo nulla e, dopo che Moseley fuggì, fece un pisolino nel seminterrato invece di uscire per aiutare Kitty.
Una figura più ambigua fu Karl Ross, un amico e vicino di casa di Genovese. Lui sentì il primo attacco senza far nulla. Il secondo attacco avvenne nel vestibolo fuori dalla porta del suo appartamento. Aprì leggermente la porta, vide Moseley che affondò un coltello in Genovese e chiuse la porta, terrorizzato. Fece un paio di telefonate, la prima a un amico di Long Island, che gli consigliò di non fare nulla, la seconda a un vicino del palazzo, che gli disse di uscire dalla finestra del suo appartamento per raggiungere l’abitazione del vicino (come abbiamo già detto) e alla fine chiamò la polizia. Intanto il tempo passava a discapito di Kitty. Potrebbe essere rilevante o meno il fatto che si pensasse che Ross fosse gay, in un momento in cui i newyorkesi gay avevano molto da temere, sia dagli aggressori per strada che dalla polizia.
‘Aiutami,’ Aiutami’
“Ho sentito una ragazza dire ‘Aiutami, aiutami’ Non era un grido, più un pianto”, ha detto il signor Mozer alla giuria composta di 11 uomini e una donna. “Mi sono alzato e ho guardato fuori e dall’altra parte della strada c’era una ragazza inginocchiata e quest’uomo era chinato su di lei. Ho urlato, Ehi, vattene da lì. Cosa fai?” Balzò in piedi e corse come un coniglio spaventato, decollò molto velocemente. Continuavo a guardarla. Si è alzata ed è scomparsa dietro un angolo.»
Nel riportare la storia di questo orribile omicidio che fece storia non solo in America ma anche in tutto il mondo per via dei suoi risvolti sociali, criminali e psicologici, oltre all’efferatezza del delitto, quello che più mi ha colpito sono le varie e a volte contraddittorie e sbagliate informazioni che online (ma anche offline) si trovano e che vengono riportate anche da pseudo persone competenti (non si tratta tanto di fake news ma di mancanza di responsabilità da parte di chi scrive articoli, post, o pubblica video inerenti questo caso. Mancanza di responsabilità verso l’utente ma anche verso la vittima di questa brutta storia. Come se fosse più importante la visibilità che vogliono ottenere queste persone, tramite i loro pseudo resoconti che l’impegno di riportare i fatti, in modo esatto, di questo omicidio).
Preciso che questo mio post non è esente da eventuali errori vista la difficoltà di reperire notizie esatte sull’accaduto e che, volutamente, ho deciso di non riportare altre informazioni, ad esempio quelle sulla famiglia di Kitty e altro, che ritengo non fondamentali in merito a questo omicidio.
Altra cosa, certamente, è, appunto , la complessità del caso e della sua ricostruzione. Ma, a distanza di tanti anni, è chiaro che Kitty fu uccisa da un lucido assassino feroce, che se la ragazza fosse stata soccorsa in modo idoneo non sarebbe morta, che alcuni, pochissimi, si sono attivati per aiutarla, che giustamente si sono rilevate inesattezze giornalistiche da condannare, ma quello che mi fa strano, maggiormente, è l’opinione di chi vuole difendere l’ambiente nel quale Kitty viveva. Come se si volesse giustificare il mancato intervento delle persone ridimensionandone la loro responsabilità. Se è vero come è vero che, ripetiamo, la ricostruzione giornalistica fu in parte errata, riguardo i testimoni del delitto, non possiamo inconsciamente, incautamente, inserire questo omicidio tra quelli della “normale” criminalità.
E continuo, andandoci forte. Sembra quasi che il “processo”, a posteriori, si debba fare alla povera vittima, Kitty, piuttosto che al suo assassino e a chi non si adoperò ad aiutarla. La cosa mi ricorda il processo per stupro avvenuto in Italia e lo straordinario documentario di Maria Grazia Belmonti fatto insieme ad altri, trasmesso il 26 aprile 1979. Per la prima volta le telecamere riprendevano dal vivo un dibattimento giudiziario: a Latina, l’avvocato Tina Lagostena Bassi difendeva la giovane vittima non solo dai suoi seviziatori ma anche dalle requisitorie dei suoi legali, tese a dimostrare una “colpevole” passività della ragazza.
Ritornando al “caso Genovese”, ci fu un’omissione da parte di alcuni vicini che se fossero intervenuti avrebbero salvato la vita di Kitty. Stop!
Certamente non è da condannare un’intera comunità, un intero quartiere, solo il mancato adempimento di soccorso di alcuni. Un mancanza che, però, costò la vita a Kitty.
La stessa Pelonero disse, giustamente, che sperava che i suoi lettori diventassero più proattivi.
“Se pensi che qualcuno possa essere nei guai, pecca per eccesso di cautela”, dichiarò la ricercatrice e come non darle ragione?
Per quanto riguarda l’assassino, catturato cinque giorni dopo durante un furto con scasso, Moseley confessò gli omicidi della signora Genovese e di altri due residenti del Queens : Annie Mae Johnson, 24 anni, che era stata colpita e bruciata viva nel suo appartamento di South Ozone Park a febbraio, e Barbara Kralik, 15 anni, che era stata accoltellata nella casa dei suoi genitori a Springfield Gardens il luglio precedente. Entrambe le donne furono aggredite sessualmente.
Nel 1968, durante la visita all’ospedale di Buffalo per il trattamento di una ferita autoinflitta ad Attica, Moseley sopraffece una guardia, prese la sua pistola e fuggì. Nei suoi diversi giorni in libertà, prese in ostaggio cinque persone e violentò una donna prima di essere finalmente ripreso dal Federal Bureau of Investigation. Ricevette due condanne di 15 anni, da eseguire in concomitanza con la sua condanna a vita.
Morì in galera il 5 aprile 2016, all’età di 81anni.
Il caso “Kitty Genovese” sconvolse la comunità americana tutta non solo per la crudeltà, la spietatezza del delitto ma per “l’indifferenza”, il mancato soccorso verso la vittima, da parte di alcuni abitanti di quel quartiere, simbolo del disinteresse, dell’insensibilità. della freddezza morale che caratterizzava, all’epoca, soprattutto le grandi città. Oggi, ai tempi nostri, anche quelle piccole. Purtroppo.
La psicologia sociale, occupandosi inevitabilmente di questo caso, diede un nome a quanto accaduto a livello, appunto, sia sociale che psicologico, nel caso “Kitty Genovese”, dando un nome a questo fenomeno: bystander (“effetto spettatore”)
definito anche apatia dello spettatore o effetto testimone (in inglese, appunto, bystander effect), un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone. La probabilità d’intervento è inversamente correlata al numero degli spettatori. In altre parole, maggiore è il numero degli astanti, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto. Numerose variabili intervengono nel determinare l’effetto spettatore. Esse comprendono l’ambiguità, la coesione sociale e la diffusione della responsabilità. Responsabilità anche nel senso che più persone sono presenti a un evento “pericoloso” meno probabilità di soccorso ci può essere perché ognuno tenderebbe a pensare che essendo in tanti, qualcun altro (e non noi) penserà ad intervenire. Un “lavarsi le mani” demandando ad altri la propria responsabilità, appunto.
L’effetto spettatore fu dimostrato per la prima volta in laboratorio da John Darley e Bibb Latané nel 1968 dopo che si erano interessati all’argomento seguendo l’omicidio di Kitty Genovese nel 1964. Questi ricercatori organizzarono una serie di esperimenti che dimostrarono l’esistenza di uno dei più importanti e più replicati effetti della psicologia sociale. In un tipico esperimento, il soggetto è o da solo o in un gruppo con altri soggetti oppure in un gruppo con dei complici dei ricercatori. Viene inscenata una situazione di emergenza e gli psicologi misurano quanto tempo occorre perché i soggetti intervengano, se intervengono. Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Ad esempio, Bibb Latané e Judith Rodin (1969) inscenarono un esperimento con protagonista una donna in pericolo in cui i soggetti erano o soli o con un estraneo o con un amico. Il 70 per cento dei soggetti nella condizione “solo” gridarono o andarono ad aiutare la donna dopo che avevano creduto che fosse caduta e ferita mentre quando c’erano altre persone nella stanza soltanto il 40 per cento dei soggetti offrì aiuto.
Si è ipotizzato che The Sound of Silence, canzone del 1964 composta da Paul Simon, pubblicata sia da Simon stesso sia dal duo Simon & Garfunkel, in fase di scrittura il testo sia stato ispirato dal caso dell’omicidio di Kitty Genovese. Canzone che puoi ascoltare cliccando qui o in quest’altra versione che personalmente preferisco (clicca qui).
Ricordando Kitty ma anche Sophia Farrar, in questo mondo sempre più indifferente dove pochi sono coloro che vogliono fare la differenza voglio ricordare anche un’altra canzone, quella del nostro artista italiano Franco Califano dal titolo “L’indifferenza” (che puoi ascoltare qui). Canzone del 1990, che in una strofa dice:
Un uomo muore, semina sangue
Cade in terra e resta là Nessuno guarda, ognuno va Per la sua strada
Parole che si adattano bene, purtroppo, a Kitty e alla sua storia.
p.s.: mi è doveroso segnalare l’interessante, toccante a volte crudo documentario (con sottotitoli in italiano) che potete trovare su YT, The Witness. Che segue gli sforzi del fratello di Kitty, Bill Genovese, mentre tenta di scoprire la verità sepolta sotto la storia di questo omicidio. Clicca qui per vederlo.