I kōan (公案) sono brevi racconti, domande o affermazioni paradossali usati nella pratica del buddhismo zen, soprattutto nelle scuole giapponesi Rinzai e Soto, per stimolare la meditazione profonda e rompere i consueti schemi di pensiero razionale. Vengono tipicamente proposti dai maestri zen ai loro discepoli come strumenti di contemplazione, con lo scopo di superare il pensiero logico e aprirsi a un’esperienza diretta della realtà, oltre i limiti del linguaggio e della logica.
La relazione dei kōan con la cultura cinese risale all’origine stessa del buddhismo zen, nato in Cina come Chán (禅) durante la dinastia Tang (618-907 d.C.). La parola “kōan” deriva dalla parola cinese “gōng’àn” (公案), che originariamente indicava un “caso pubblico” o “precedente legale”, come una decisione giudiziaria utilizzata per stabilire norme e risolvere casi successivi. Nello zen, il termine è stato reinterpretato per indicare una “questione” da indagare, su cui meditare per avvicinarsi all’illuminazione.
I primi kōan nacquero in Cina attraverso i dialoghi e le azioni dei maestri zen e dei loro discepoli, tramandati e raccolti in testi come *Il Racconto della Roccia Blu* (碧巌録, *Bìyán Lù*) e *Il Libro della Tranquillità* (従容録, *Cóngróng Lù*). Questi testi raccolgono aneddoti spesso enigmatici, dove le risposte apparentemente irrazionali o paradossali dei maestri servono a far intuire verità spirituali al di là delle parole.
In Cina, i kōan rappresentavano una via alternativa rispetto alle pratiche più formali e filosofiche del buddhismo tradizionale, proponendo invece un metodo che sfida il pensiero dualistico. Venivano usati per distaccare l’allievo dal ragionamento lineare e portarlo a un’intuizione più immediata della realtà, che, nella visione zen, è libera da interpretazioni mentali e sovrastrutture. Quando il buddhismo Chán si diffuse in Giappone e divenne zen, i kōan furono adottati e rielaborati, soprattutto nella scuola Rinzai, assumendo una struttura più sistematica e diventando parte integrante della disciplina zen giapponese.
J.D. Salinger mostra un evidente interesse verso i kōan e i principi del buddhismo zen, che influenzano profondamente le sue opere, in particolare i racconti dedicati alla famiglia Glass. Una delle più celebri espressioni di questo legame è l’epigrafe del suo libro *Nove racconti*, che cita un famoso kōan zen: “A battere le mani, sappiamo il suono delle due mani insieme. Ma qual è il suono di una sola mano?”. Questo kōan, che risale alla tradizione zen Rinzai, incarna il tentativo di raggiungere una comprensione intuitiva, oltre il pensiero dualistico. Salinger lo inserisce come epigrafe per suggerire che le storie che seguono non mirano a essere comprese solo a livello logico, ma richiedono un’attenzione profonda e non convenzionale, quasi meditativa.
Attraverso i personaggi come Seymour e Franny, Salinger esplora domande che riecheggiano i kōan, poiché i suoi protagonisti sono spesso alla ricerca di verità spirituali che non possono essere spiegate a parole. L’uso del kōan nell’epigrafe dei *Nove racconti* sottolinea proprio questa tensione tra il pensiero razionale e l’intuizione trascendente, avvicinando i lettori all’idea zen che la realtà più profonda si trovi oltre le strutture linguistiche e intellettuali.